Di Claudio Reclus
No, non è mai esistito un Barocco body positive. D’altronde è improbabile che vi sia traccia di un concetto del XXI secolo nel XVII. Ma il parallelismo può essere utile come punto di riferimento per orientarsi attraverso una tendenza meno nota della letteratura secentesca e aiutare a comprendere quella parte della poesia del Seicento che ha sovvertito i canoni estetici tradizionali.
Non si può parlare di poesia barocca senza menzionarne il maestro assoluto, l’arbiter supremo, il modello universale e la voce più influente: Giovan Battista Marino. Non solo il marinismo è alla base pressoché di tutta la poesia del Seicento, ma a Marino si devono anche i versi in grado di sintetizzare l’intero spirito delle arti del Barocco complessivamente intese:
È del poeta il fin la meraviglia
(parlo dell’eccellente e non del goffo):
chi non sa far stupir, vada alla striglia!
Questa ricerca dell’effetto sbalorditivo accomuna in fondo tutta la creatività barocca, seppure la banalizzazione di tale considerazione abbia condotto alla vulgata inquinata dai luoghi comuni su un Barocco fatto di appesantimenti virtuosistici ed esili contenuti. Non è poi così eccessivo sostenere che il Barocco è stato un movimento caratterizzato nel suo insieme da un’inclinazione anticlassicista, o che quantomeno ha messo in discussione il classicismo – benché anche nel Barocco stesso sia esistita una considerevole corrente classicista. Tant’è che un Domenichino, per esempio, ha ben poco da spartire con un Pietro da Cortona.
Al netto di definizioni e categorizzazioni rigide e approssimative che possono trovare una ragion d’essere come strumento didattico elementare, è però indubbio che nel corso del XVII secolo l’attenzione di artisti e letterati si sia rivolta in larga parte a tutto ciò che esula dalla norma rinascimentale e classica. E laddove si battono strade inesplorate, rovesciando le regole tradizionali per perseguire quel fine marinista della meraviglia, la sperimentazione non può che culminare nel tentativo di innovare radicalmente la visione del tema più caro alla poesia di tutti i tempi: la figura femminile. Nello specifico: la bellezza della donna. O meglio ancora: la concezione della bellezza della donna.
La soluzione dei poeti barocchi è tanto semplice quanto rivoluzionaria: se i poeti hanno finora cantato la bellezza femminina, noi ne celebreremo la bruttezza.

La storia della letteratura è in realtà ricca di componimenti dedicati a donne brutte anche prima del Seicento, ma con connotazioni completamente diverse: nell’antichità latina e nel Medioevo, la condanna morale della vanitas rende bersaglio di sferzate misogine la donna il cui aspetto è sfiorito con gli anni; nel Rinascimento la donna brutta è oggetto di bonaria satira antipetrarchesca, e alla bella ed eterea Laura si sostituiscono fanciulle deformi.
Gli autori del Barocco invece individuano motivi di interesse e attrazione proprio nelle imperfezioni fisiche.
Fioriscono dunque poesie dedicate alla bella vecchia, alla bella zoppa, alla bella nana, alla bella pidocchiosa, e così via.
Esponente di rilievo di tale filone è sicuramente Alessandro Adimari. Politico aristocratico, dotto letterato, abile traduttore e stimato grecista nato a Firenze nel 1579, nella sua vasta e variegata produzione letteraria spicca la Tersicore, dal nome di una delle nove muse. Si tratta di una raccolta di cinquanta sonetti in cui l’autore passa in rassegna ogni possibile difetto – soprattutto fisico, ma anche morale – che una donna possa avere, tessendone le lodi e cercando di dimostrare perché si tratta in realtà di pregi. Ogni titolo è costruito come un ossimoro composto da due attributi, in cui il primo è sempre bella seguito dall’aggettivo sostantivato della caratteristica negativa: Bella gobba, Bella butterata, Bella gozzuta, fino all’ossimoro perfetto di Bella totalmente brutta.
Bella grassa sembra anticipare di secoli i discorsi della fat acceptance:
Ben mi parrebbe impoverir nell’oro,
E nel mezzo del Gange ire assetato,
S’io fossi, o bella grassa, un di coloro
A cui non piace il tuo sembiante amato.
O gusti senza gusto, e che v’è grato
Gli scheretri, le mummie, e l’ossa loro?
Volete forse un secco legno allato
Viè più d’un verde e rigoglioso alloro?
O ritondetta mia, dirò sol questa
Di tante tue lodi belle e serene,
Che di te, nuda ancor, qualcosa resta.
Nella copia Amaltea ricca diviene,
Nella pienezza il piè la luna arresta,
Nell’auge il sol s’avanza, e lì s’attiene.

Per non far torto alla fisicità opposta, non manca nemmeno l’ode alla bellezza scheletrica di Bella magra.
E se la letteratura è piena di sorrisi sfavillanti, Adimari elogia la Bella sdentata:
Non hai, Donna, egli è ver, priva di denti
Quelle porte d’avorio e quei cancelli,
Che fra gli archi di rose umidi e belli
Aprono il varco a risonar gli accenti.
Ma quell’aure non hai dolci e ridenti
Imprigionate ancor quando favelli;
Nel mar, che non ha scogli arditi e snelli,
Più vanno i legni a gareggiar coi venti.
Chi disprezzò mai conca gentile
Perché le perle sue dolci e vivaci
Si tien lontan a fabbricar monili?
O disarmata bocca, a me tu piaci,
Perch’il serpe sdentato è sempre umile,
E manco ho da temer se tu mi baci.

Adimari si spinge sempre più in là rispetto ai colleghi. Per esempio, mentre alcuni scrivono versi alla bella mora, egli dedica un sonetto alla Bella calva. Può far strano vedere annoverati i capelli neri tra i difetti estetici, ma solo coloro le quali avevano i petrarcheschi “capei d’oro a l’aura sparsi” potevano essere considerate belle per gli standard poetici. Il Barocco ha interrotto a suo modo il lungo periodo della massima gloria di cui le bionde abbiano mai goduto.
O Dio, chi non dirà, calva donzella,
Che le bellezze tue chiare e divine
Sian rose senza foglie, e senza spine,
O senza fronde, e fior selva novella?
E pur nell’alto ciel crinita stella
Va sempre orrenda a minacciar ruine,
E pur calva da tergo, e senza crine
Fortuna è dolce in rincontrarci, e bella.
O gran follia d’amor, tener prigione
Fra’ lacci d’un capello il core e l’alma,
E del suo danno amar l’empia cagione;
Quando chiomata in mar la nave spalma,
Di crudo tempestar sente lo sprone,
Ma se vele non ha, segno è di calma.

La fedeltà al metodo e allo scopo conduce alle estreme conseguenze espresse dai sonetti Bella con vaiuolo, Bella morta e Bella sepolta.
Certo, il marinistissimo gioco intellettuale, lo scherzo, il tipico concettismo secentesco e il gusto del bizzarro squisitamente barocco sono innegabili; non a caso il titolo completo dell’opera è La Tersicore ovvero scherzi e paradossi poetici sopra la beltà delle donne; ma ciò che distingue Adimari da altri autori quali Claudio Achillini, Giuseppe Salomoni, Giovan Leone Sempronio, Bernardo Morandi, Anton Maria Narducci o Giambattista Marino stesso, è che se per costoro la bruttezza è un nonostante, per Adimari è un in quanto: gli altri dicono: “Mi piaci anche se sei brutta”; egli dichiara: “Mi piaci proprio perché sei brutta”. Un cristianesimo fortemente influenzato dallo stoicismo di Seneca rende infatti Alessandro Adimari più sincero di quanto si pensi nella propria volontà di superamento delle apparenze effimere, ponendo l’etica al di sopra dell’estetica. Non a caso Adimari cita prima di ogni sonetto sentenze di Seneca che fungono da guida alla lettura del sonetto medesimo. Il nobile messaggio sotteso che si può scorgere senza eccessive forzature è che ogni donna deve essere amata indipendentemente dalle sue sembianze.

E nelle arti visive?
Nell’Italia della Controriforma, la Chiesa ha intuito il potenziale persuasivo delle immagini, strumento di propaganda privilegiato presso una popolazione largamente analfabeta. Nel corso del XVII secolo, pittori e scultori si occupano principalmente di arte sacra, sebbene non disdegnino i soggetti profani e la pittura di genere goda di una rapida diffusione. La figura umana nei dipinti e nelle sculture rimane pertanto fortemente idealizzata. Anche nel dirompente e sovversivo realismo di Caravaggio si riscontra più un vigore di verosimiglianza che una volontà descrittiva della realtà quotidiana.
Nell’Europa centro-settentrionale toccata dalla Riforma protestante accade qualcosa di diverso. Lutero e Calvino non vedono di buon occhio l’arte sacra e insistono sulla centralità della parola rispetto all’immagine nella diffusione del messaggio cristiano. I fedeli leggono le Scritture, mentre i pittori – in particolare i fiamminghi – si concentrano sul mondo che li circonda e portano nelle proprie opere la società mercantile in cui vivono e si muovono: paesaggi urbani e ritratti di gente comune diventano protagonisti di quadri che al contempo esaltano e indagano la realtà.
I fiamminghi riproducono dunque ciò che vedono e di cui fanno esperienza, ora con piglio critico, ora con ironia, ora con tocco poetico, ma sempre con una vocazione di ricerca e accuratezza mimetica. Nel Seicento fiammingo la vita di tutti i giorni diventa insomma argomento prediletto della pittura.
Emblematiche sono le tronie, ovvero quella classe di ritratti che pongono l’accento sulle espressioni dei volti di persone qualsiasi senza alcun intervento estetizzante. I soggetti vengono dipinti per ciò che sono, con la maggiore veridicità possibile. Ecco che allora anche donne ben lontane dai canoni di bellezza vigenti diventano modelle degne di grandi artisti.
Tra gli specialisti di questo genere occupa un posto d’onore Frans Hals, forse il massimo pittore di sorrisi di sempre, i cui ritratti femminili si contraddistinguono per grazia e benignità. Cosicché oggi anche la sua Malle Babbe o la sua gitana, per chiunque, sono belle.

Claudio Reclus
Ritual+ è il nuovo progetto editoriale di Ritual The Club incentrato sugli aspetti culturali del mondo fetish.