DI ELISABETTA PASCA
Occhi neri, occhi appassionati
occhi infuocati e bellissimi,
quanto vi amo, quanto vi temo,
di sicuro, vi ho scorto in un momento sfortunato.
Oh, non per nulla siete più scuri degli abissi!
Vedo in lutto il mio cuore in voi,
vedo una fiamma trionfante in voi:
un povero cuore immolato in esso.
Ma io non sono triste, non sono addolorato,
la mia sorte mi è di conforto:
tutto ciò che è meglio in vita, Dio ci ha dato,
in sacrificio ritornerò ai focosi occhi!
Oci ciornie vuol dire occhi neri ed è il titolo di una delle canzoni d’amore di punta della musica popolare russa, tratta da una poesia del poeta e scrittore Yevhen Hrebinka. Nel 1987, Oci ciornie diventa anche il titolo di un film struggente diretto da Nikita Sergeevič Michalkov, ispirato ad alcuni racconti di Cechov, con Marcello Mastroianni e Silvana Mangano, ma qui finiamo dentro un’altra storia. In questo caso, gli oci ciornie di cui voglio occuparmi sono occhi verde smeraldo, che però appaiono neri per via di una serie di contingenze ben studiate, ossia, nello specifico, una buona dose di belladonna, per dilatare le pupille, e abbondante bistro usato per contornare lo sguardo, per renderlo allo stesso tempo profondo e affilato, pericoloso, come la grotta che cela la mortifera Scilla ai marinai.

La proprietaria di questi occhi ci guarda da una serie di ritratti in bianco e nero: i suoi oci ciornie, rimasti impressi nella pellicola, continuano a esplodere dalla superficie bidimensionale delle fotografie. Ora, mi chiedo: può lo sguardo di una donna, immobile, fondo e scuro, vecchio di cento anni, essere più vivo, guizzante e conturbante della maggior parte di quella materia formicolante, sudaticcia e agitata che ci gira intorno? Se anche voi come me avete visto, anche solo una volta, le immagini che ritraggono il viso della Marchesa Luisa Amman Casati sapete già che questo è possibile e potete benissimo anche evitare di leggere questo articolo, per dedicarvi alla ben più proficua e gaudente attività di contemplarla nella molteplicità di segni visibili e tangibili che ha lasciato dietro di sé. Se però avrete la pazienza di seguirmi, potremmo anche aggrapparci virtualmente gli uni agli altri, per poi lasciarci precipitare insieme nella voragine irresistibile verso cui Luisa Casati ci invita con voluttà. Di fronte a un presente che, da una parte, cerca di promuovere un’inclusività sempre più scevra di compromessi e di distinguo, ma, dall’altra, tende ancora a opporre una tenacissima resistenza a tutto ciò che costituisce l’universo del perturbante, scegliendo di rimuoverlo piuttosto che abbandonarcisi e finalmente affrontarlo, la figura della Marchesa si staglia come un unicum, ineguagliabile. “La carne non è se non uno spirito promesso alla morte”, scriveva per lei D’Annunzio il 6 agosto del 1913. La sua intera vita si configura come un “vivere per la morte” nella ricerca inesausta di accordare corpo e anima in una sinfonia del tutto solipsistica, senza intenti paradigmatici. Gli altri l’avrebbero amata, desiderata, inseguita, ammirata, detestata e imitata, ma lei avrebbe agito per tutta l’esistenza esclusivamente per sé, costruendo la sua propria inoppugnabile epica.

La vita della Marchesa Luisa Casati, icona dell’arte e della cultura italiana del XX secolo, senza dubbio, può essere rappresentata come un’iperbole che sfida audacemente i moti discendenti della storia; è un sorprendente ghirigoro, ingarbugliato e ammaliante al tempo stesso; è espressione viva e potente di un mistero unico e particolare, che pure racchiude in sé aspirazioni e desideri universali. La bella Marchesa dagli occhi bistrati, amata da Gabriele D’Annunzio e ritratta da alcuni fra i più grandi pittori e artisti della sua epoca, ha infiammato con la sua personalità gli anni d’oro del primo Novecento, scegliendo di imprimere alla propria vita una marcia decisa e implacabile, tale da rendersi, a tutti gli effetti, un’opera d’arte destinata a sfidare l’oblio e la crudeltà del tempo. La Divina Marchesa, per Jean Cocteau “il più bel serpente del paradiso terrestre”, ha scolpito, dipinto e agito la sua persona, riuscendo a incarnare nella sua forma mortale e nei suoi gesti quell’ineffabile senso del peccaminoso da cui si origina sì la mortalità degli umani, ma, al tempo stesso, scaturiscono anche tutte le sue infinite possibilità.

Nata a Milano il 23 gennaio del 1881, figlia di Alberto Amman, rampollo di una ricca famiglia austriaca di origine ebraica e promettente imprenditore del ramo tessile, e della cosmopolita di origine viennese Lucia Bressi, sorella minore dell’amata Francesca, per tutti Fanny, Luisa cresce in un ambiente ricco di stimoli e di interessi; è bella, intelligente, ricca, eccentrica, dotata di un fascino e una passionalità fuori dal comune. Fin dall’infanzia, una febbre le brucia dentro, inarrestabile: è il desiderio di affrancarsi da ogni tipo di dipendenza a muovere ogni suo passo, ogni sua ricerca. Nelle vite di donne emancipate e libere dal dominio maschile, come Sarah Bernhardt, Cristina di Belgioioso, Elisabetta d’Austria o la Contessa di Castiglione, la giovane Luisa cerca di decifrare le coordinate del suo destino, di cui vuole essere completa padrona e signora, al di là di ogni controllo. La morte prematura dei genitori, però, appiccica addosso a lei e alla sorella l’etichetta di “più ricche ereditiere d’Italia” e infine nel 1900 Luisa sposa il marchese Camillo Casati Stampa di Soncino, da cui l’anno dopo avrà la figlia Cristina. Ma il demone di Luisa non può quietarsi così facilmente. Sente con ogni fibra del suo corpo di non essere fatta per interpretare esclusivamente il ruolo di moglie e madre. La vita familiare è un orizzonte troppo piccolo per il suo sguardo profondo orientato al futuro; l’imponente varietà del mondo che ha cominciato ad assaporare a Parigi, in viaggio di nozze, in occasione della grande Esposizione Internazionale, è più adatta per i suoi incredibili occhi verdi, resi ancora più affascinanti da un lieve strabismo di Venere e dal furbo artifizio delle gocce di belladonna che ne dilatano le pupille. Eccoli, quegli occhi, i suoi occhi, verdi ma neri, di un nero metafisico che assorbe ogni altra cosa, che contiene tutto e tutti, occhi avidi e curiosi, di arte, di creatività, di sfrontata volontà di stupire sempre e comunque, a ogni costo. Luisa decide di testare fino in fondo il complesso abisso della sua personalità. Il suo corpo è la personale tela su cui dipingere il suo capolavoro: dai capelli di un rosso fiammante, acconciati con un modernissimo e imitatissimo taglio corto, agli “occhi lenti, di giaguaro che digerisce il sole” – gli occhi, sempre gli occhi – come li definisce il futurista Marinetti; dall’abbigliamento ricercato e stravagante alla passione per l’esotico, che permea il suo gusto nell’arredare in maniera mai scontata le sue case e anche la sua ispirazione nel camuffamento. Indimenticabili le feste in maschera con i costumi confezionati di concerto con personaggi del calibro di Mariano Fortuny e Paul Poiret, o con il celebre costumista del Ballet Russes, Léon Bakst. Invidia, ossessione, scandalo, ogni reazione è buona pur di lasciare tutti senza fiato. Come quando, lei, grande amante degli animali, gira di notte per le calli di Venezia con un ghepardo al guinzaglio o ancora indossa un pitone vivo come foulard intorno al collo. Lei, donna eccezionale, senza paura, capace di essere se stessa fuori da ogni misura, da ogni senso comune.

Nella sua corsa a ostacoli contro l’ordinarietà, è decisivo l’incontro e l’affinità elettiva con un’altra anima incontenibile, quella del Vate D’Annunzio. Fatale una caccia alla volpe, che li scopre e li svela, incrociandoli in un connubio eccelso fatto di corrispondenza erotica e spirituale. Lei è per lui Kore, la regina degli Inferi, l’unica donna al mondo capace di sbalordirlo, tanto da diventare Isabella Inghirami, la protagonista femminile del romanzo Forse che sì forse che no, pubblicato nel 1910. La loro relazione non è un rapporto chiaro ed esclusivo, ma è un fertile terreno d’incontro per accrescere verve creativa e libertà interiore; un coraggioso salto nel vuoto, tenuto insieme solo dalla stretta leggera delle loro indoli fuori scala. D’Annunzio suggerisce a Luisa di prendere dimora a Venezia, sua città specchio, arcana, crudelmente bella e decadente. Lei sceglie Palazzo Venier dei Leoni, attuale sede della fondazione Peggy Guggenheim, e questa nuova sistemazione è la base per nuove forme di espressione: Luisa Casati diviene icona assoluta della Belle Époque, scopritrice di talenti, mentre si conferma giorno dopo giorno regina dei salotti e delle feste, trasformando l’effimero in sublime, conquistando frotte di artisti che fanno a gara per ritrarla, lei Musa e Demone, inafferrabile e perciò sfida irresistibile quanto urgente. Augustus John, Kees Van Dongen, Romaine Brooks, Ignacio Zuloaga, Alberto Martini, Umberto Boccioni e Giacomo Balla sono solo alcuni dei pittori che affronteranno la sfida di fissare su tela il mistero del suo volto e del suo corpo, l’incantesimo oscuro della sua bellezza al di là del tempo. In particolare, nei dipinti di Giovanni Boldini, con il quale la Marchesa allaccerà una corrispondenza intellettuale fuori dal comune, riverbera la potenza maestosa dell’androginia moderna e straziante della Marchesa, come possiamo ammirare nel leggendario quadro La jeune femme au levrier e così come accade nel ritratto del fotografo Man Ray del 1922.

Un’esistenza votata consapevolmente all’eccezionalità e alla scoperta dello straordinario dentro di sé e fuori di sé si spegne in Inghilterra, a Londra, dove Luisa Casati passa in stato di miseria gli ultimi anni della sua vita, dopo aver sperperato tutto il patrimonio e alimentato una somma di debiti pari a 25 milioni di dollari. Il 1 giugno del 1957, in seguito a una seduta spiritica, la Marchesa è stroncata da un’emorragia cerebrale che la condurrà alla morte. Sembra la descrizione di una parabola discendente, dagli altari alla polvere, ma non lo è: si tratta invece dell’atto finale, spietato e cocente, sì, ma ineffabile, di un’esistenza libera in ogni senso possibile, persino dal vincolo del successo e della ricerca della felicità. Luisa Casati, scegliendo di perpetuare la rappresentazione di se stessa in luogo di un vivere concreto e pragmatico, ha infine beffato la morte, facendo di sé un capolavoro per sempre vivo, sacrificando ogni cosa nel nome dell’ideale dell’arte per l’arte, immolandosi sull’altare dell’Inutile per poi poter restare per sempre estranea alla morte, così com’era sempre stata estranea ai meccanismi più elementari e comuni della vita, riuscendo a scalfire con la sua personalità impetuosa il freddo spazio dell’eterno. Non a caso, per la sua tomba la nipote Moorea sceglie un epitaffio tratto dall’opera shakespeariana Antonio e Cleopatra, che incide nella pietra il grande e inimitabile talento di Luisa Amman Casati: “L’età non può appassirla, né l’abitudine rendere stantia la sua varietà infinita”.

ELISABETTA PASCA
Ritual+ è il nuovo progetto editoriale di Ritual The Club incentrato sugli aspetti culturali del mondo fetish.